L’appropriazione del termine blue zone, un’espressione originariamente coniata in ambito scientifico per identificare alcune aree del mondo caratterizzate da un’eccezionale longevità, solleva questioni che vanno ben oltre il semplice dibattito su diritti e proprietà intellettuale. L’idea di qualche organizzazione di voler monopolizzare questa espressione e il tentativo di rendere il suo uso esclusivo da parte di chi rivendica di aver registrato un marchio su questa definizione – peraltro non propia ma di altri soggetti riconosciuti e riconoscibili – non solo è infondata dal punto di vista normativo ma è anche proditoria, perchè manifesta arroganza e riflette la povertà intellettuale di chi si appropria di un termine non proprio.
Il termine, come è evidente all’opinione pubblica, è nato per essere universalmente comprensibile e condiviso e non può essere limitato in alcun modo. Dispiace che solo in Sardegna si verifichi questo goffo tentativo di appropriarsi di una espressione di uso comune. Dispiace che sempre in Sardegna, terra in cui l’invidia appartiene a chi non fa mai niente, ci sia ancora qualcuno che spenda il proprio tempo a voler criticare chi si impegna con entusiasmo a valorizzare un territorio spesso dimenticato dalle Istituzioni.
L’idea delle blue zones è emersa nei primi anni Duemila grazie alle ricerche del demografo Michel Poulain e del medico Gianni Pes, con il contributo del giornalista e autore Dan Buettner, che ha portato all’attenzione del pubblico la straordinaria longevità di alcune comunità nel mondo, tra cui quella della Sardegna. Questo termine descrive non solo una realtà geografica, ma una serie di fattori legati alla qualità della vita, alle abitudini alimentari, al sostegno sociale e a uno stile di vita unico che contribuisce a una vita più lunga e sana. La blue zone non è un marchio: è un concetto, un patrimonio umano, una fonte di ispirazione per studi e ricerche e un richiamo per chiunque voglia esplorare le radici della longevità.
In Sardegna, in particolare, le blue zones sono diventate non solo oggetto di studio, ma anche una risorsa economica, con potenzialità immense per il turismo esperienziale e la valorizzazione del territorio. Pensare di poter circoscrivere l’uso di questo termine, nato da una scoperta scientifica e culturale condivisa, significa tradire lo spirito stesso della longevità come patrimonio collettivo. Pretendere che altri non possano utilizzare questo termine per progetti legati alla promozione turistica, alla divulgazione scientifica o alla sensibilizzazione culturale rappresenta un limite dannoso.
In un mondo in cui la longevità è un argomento che interessa milioni di persone e in cui le pratiche di vita delle blue zones sono un modello per la società contemporanea, appare paradossale voler limitare l’uso di questo termine, svuotandolo di significato e valore. Un marchio registrato può forse proteggere un prodotto, ma non dovrebbe avere il potere di imbavagliare le idee o di limitare l’accesso al patrimonio culturale e scientifico. La longevità delle blue zones è un bene di tutti, un invito a riflettere su modelli di vita alternativi, ed è attraverso una visione aperta che possiamo permettere a queste aree e a coloro che ne studiano o raccontano le peculiarità di continuare a prosperare e a diffondere il loro messaggio universale.
(Gesuino Locci)