“È la transumanza a fare de pastore un uomo di frontiera: dai terreni della montagna si scende verso le pianure e verso le marine per svernare, con spostamenti di oltre cento Km., per due giorni di viaggio. In cammino, un uomo, un gregge e gli attrezzi essenziali, da novembre a maggio senza portare la famiglia al seguito. Nel nuovo allocu si ricostituisce l’ovile, si svolgono le pratiche materiali di produzione e di lavorazione, si istaurano nuove relazioni comunicative con i confinanti. Si organizza spazio e tempo secondo il modello conosciuto.
(Sa essia – di Bachisio Bandinu)
“Sa essia” l’uscita per eccellenza, avveniva all’alba di un giorno di metà novembre, prima che le imminenti nevi imbiancassero le cime del Gennargentu e prima che le greggi rimanessero senza erba. “Su meri” il pastore proprietario del gregge, avvolto in “su saccu” il mantello di orbace, aiutato dai servi pastori, “su seraccu” due ogni cento capi, carico dell’occorrente costituito dal pane pistoccu, coperte, sa leppa, il coltello, dava il via al gregge dalla dimensione media da 200 a 300 capi, attorniato da cani abbaianti e festosi. Così iniziava, ed inizia ancora in forma minore e ridotta, mutatis mutandis, l’avventura, non senza una certa ansia e preoccupazione. Capitava di dormire qualche ora sulla ghiaia per non prendere sonno profondo. Lasciava “su koili de erànu” l’ovile d’estate e iniziava la discesa in pianura a svernare. Lo scampanellio dei campanacci non disturbava l’aria gelida, la solitudine ed il silenzio delle montagne, precedeva il gregge su mascu sanau, il montone castrato. Non prendevano parte le donne sia per la difficoltà della vita da affrontare sia perché vi partecipavano troppi uomini.
Le donne ogliastrine e barbaricine rimanevano in paese col compito gravoso di governare la casa e la famiglia. Il paesaggio è giudicato quanto meno suggestivo ed unico. Il Gennargentu descritto da viaggiatori illustri, poeti, scrittori, antropologi, studiosi che hanno approfondito “la vita” pastorale e la relativa solitudine ogliastrina, è considerato un massiccio centro di un mondo unico. Sotto la vetta più alta del Gennargentu e della Sardegna, punta La Marmora 1834 m., tra valli profonde ed incassate, attraversate da freschi e limpidi ruscelli, tra file di ontani, ginepri, lecci, tassi secolari e macchia mediterranea di eriche, corbezzoli, timo, peonie è partita per secoli la transumanza delle greggi in cerca di clima caldo e pascoli verdi. Nei pressi, silenzioso e muto da tanti secoli il villaggio nuragico “Sa idda e’ Ruinas”, le rovine di un villaggio situato a 1200 m.slm. sulla cima della collina Mesu Serra, testimonianza di una antica civiltà.
“Sa idda ‘e Ruinas”
Il villaggio nuragico di Ruinas, a quota 1197 sul massiccio del Gennargentu, è stato definito da Giovanni Lilliu, “il più alto della Sardegna”. “Si estende un vasto campo di rovine, nel quale si scorgono nettamente gli avanzi di circa 200 costruzioni circolari e s’intravedono i resti di altre venti, mentre molte si suppongono nascoste dai cumuli di macerie che si vedono qua o là. Il nuraghe domina il villaggio, le cui costruzioni, tutte di pianta circolare sono sparse senz’ordine per tutto il territorio.
Senza dubbio è questo il villaggio nuragico più esteso che abbia potuto rilevare durante la mia campagna di esplorazione archeologica”così scrive Orazio Ferreli. Ed aggiunge di aver visitato 28 nuraghi, 22 villaggi nuragici, 20 tombe di giganti, 7 domus de janas, 6 villaggi di età romana. Le rovine di Bidda Silisè, Crobèni, Cortes de Macèddu, Adana, che vengono censite nell’area del villaggio nuragico di Ruinas, si sostiene siano state abbandonate intorno al 1400, in seguito ad una “pestilenza”, ed i suoi abitanti, dopo un lungo girovagare, furono accolti da Arzana, in cambio delle loro terre.
Oggi i paesi sono interamente distrutti tranne il nuraghe nella parte alta del villaggio, chiamato dai pastori arzanesi “Sa presoni ’e Molathò”. Anticamente doveva essere un grosso centro, a cui facevano capo tutti i pastori della zona. Dovevano esserci anche fontane e pozzi, perché l’acqua, componente essenziale per la vita degli uomini e degli animali, sgorga da varie e ricche fonti e dà origine a limpidi torrenti e spettacolari cascate fino a riunirsi in località Frumini in modo naturale e dando vita al Flumendosa ed all’omonimo lago artificiale.
Fin dalla preistoria l’abitazione nei luoghi del pascolo era ricavata dalla natura stessa, grotte, ripari sotto roccia, cavità adattate con muri di pietre a secco, le stesse magari dei siti archeologici, pelli di pecora, travi e tronchi di ginepro e leccio.
Attorno dormivano i cani in difesa del pastore e del bestiame. L’arredo era costituito da pietra, legname, rami e pelli; in montagna i pastori portavano dal paese il pane pistoccu e il sale. Un ramo d’albero di ginepro ripulito e infisso nel terreno serviva da sostegno per utensili vari e per l’essiccazione della carne. Il formaggio essiccato di scorta alimentare trovava posto nell’ovile. Anche il vestito era tessuto con lana di propria produzione, l’orbace. Il pastore ha sempre padroneggiato il suo territorio, ha chiaro il percorso che deve fare ma sa anche che non mancano insidie, sorprese, pericoli. Il primo ostacolo era costituito dall’asprezza dei sentieri stretti, impervi, scoscesi, aspri.
La seconda preoccupazione era costituita dalle condizioni del tempo, infatti il pastore conosceva grotte e anfratti, di cui il territorio è cosparso, che venivano adattati a riparo temporaneo, contro le intemperie, le insidie della natura. Le pecore o le capre non hanno altro riparo che gli alberi o le cavità delle rocce. Nel territorio ogliastrino non sono pochi i ricordi ed i racconti di frane, alluvioni, temporali improvvisi che hanno procurato immensi danni agli agricoltori e pastori.
I racconti, appunto, di questi terribili momenti, diventano un canale di trasmissione alle giovani generazioni della memoria dei luoghi e luoghi della memoria vicino ai camini nelle sere d’inverno. Il pastore contava anche su amici che vivevano lungo il percorso che attraversava. I legami amicali e la rete di relazioni sociali erano importanti per la vita del pastore: lungo gli itinerari degli spostamenti molto spesso si verificavano furti di bestiame, appostamenti ed imboscate. A tutti è noto l’abigeato di Sardegna, reato diffuso, vera e propria piaga che ha portato molti lutti, faide tra famiglie, odi e inimicizie lunghe, tenute nascoste, nella maggior parte dei casi ai tutori della legge: le “bardanas”, bardane, erano guerre sotterranee con multi rischi e presunte “grandezze”.
Non tutto era “balentìa”
La transumanza, talvolta, era anche una sfida che metteva a nudo il coraggio del pastore, la forza del dominio della montagna sulla pianura e del suo dominio sulla stessa montagna. Le imboscate erano dietro l’angolo. Brigate di giovinastri nei paesi di attraversamento attendevano le greggi per compiere bravate. Raccontava tziu Giovanni che, prima di partire per la Savoia in cerca di lavoro verso la metà del Novecento, alcuni pastori ussassesi volevano che giurasse sulla “Bibbia” che non avesse sottratto, con l’allegra compagnia, delle pecore durante un attraversamento dello stadone di Ulassai.
Il pastore sapeva dove effettuare le soste, il pernottamento, la raccolta del latte. Prestava attenzione ad evitare non controllati sconfinamenti e danni alle colture, seguendo percorsi già sperimentati dagli avi. Dedicava particolare cura ed attenzione alle pecore o capre gravide, allora le soste potevano durare anche due ore. Le destinazioni, per gli arzanesi e villagrandesi e comunque degli abitanti dei comuni dell’alta Ogliastra, una volta usciti dal Gennargentu, erano il Salto di Quirra, Alùssera e più avanti il Sarrabus, Castiadas o verso le groppe del Gerrei ed il Medio Campidano. Alcuni si spingevano lungo le coste tirreniche fino all’Iglesiente. I Serra, i Piras, i Podda, i Murino, i Vargiu, i Lepori, famiglie che, partite dalla montagna di anno in anno per la transumanza, hanno acquistato terreni, poderi a seguito della crisi della mezzadria e si sono stabiliti in prossimità delle coste, a Barì, a Castiadas, a Mogorella, a Genico, a Uta, a Orosei e così via, avvicinando la montagna alla pianura ed al mare. La transumanza non si ferma anche quando il governo piemontese giudica negativamente sul piano economico la pastorizia: “ostacolo allo sviluppo produttivo e civile delle campagne” (G.G.Ortu) ed emette l’editto delle chiudende.
Anche se il regime di proprietà veniva modificato nei vari periodi della storia,” il modo di utilizzazione dei pascoli è rimasto sempre uguale: i pascoli privati o comunali che siano, sono utilizzati in comune, non devono essere chiusi”. Gli itinerari o le direttrici della transumanza dalle montagne ogliastrine erano diverse, verosimilmente si possono indicare le più frequentate, ad esempio la direttrice (o itinerario) che, raggiunta la valle del Pardu, dopo aver superato i villaggi di Osini ed Ulassai porta a Su Pranu ed alla valle di San Giorgio, quindi al Salto di Quirra; altra direttrice portava a Perdasdefogu per raggiungere ugualmente l’area del Salto di Quirra. Altro itinerario era l’attraversamento di Lanusei, passando da località Sa Serra, ponte San Paolo, la Orientale Sarda SS 125, Genne ‘e Cresia, Tertenia fino alle enclaves comunali di Quirra.